Viviamo in un'epoca allo stesso tempo affascinante
e terribile. Affascinante perché mai come adesso il futuro del
Pianeta
Terra è
soprattutto nelle nostre mani, temibile perché la nostra generazione è la
prima, da quando la specie umana è comparsa sulla Terra, ad avere il potere di
distruggere in poco tempo tutto quello che ci proviene dal passato,
compromettendo quello che potrebbe esistere nel futuro del nostro pianeta. L'
Homo sapiens ha interagito con il mondo naturale sin da
quando apparve sulla faccia della Terra. Con il passare del tempo e con
l'evolversi delle proprie capacità culturali ha incredibilmente ampliato le
proprie capacità di modificazione degli ambienti naturali. Ma è soltanto da pochissimo tempo, se lo rapportiamo al periodo per il
quale si suppone sia apparsa sulla Terra, che la specie umana sta intervenendo
rapidamente e profondamente sui cicli dell'intera biosfera, quella fascia
costituita da
acqua, aria e
suolo ove è possibile l'
esistenza ed il mantenimento del fenomeno vita.
Per far si che questo
"cambiamento" non produca effetti ulteriormente negativi e per affrontare
adeguatamente questa crisi globale bisognerà mettere al centro delle nostre
politiche future quella della giustizia
ambientale per costruire un rapporto più equo e giusto con la natura e per
assicurare un accesso equo e sostenibile alle risorse naturali comuni. La crisi climatica è
già ad un punto grave e il tempo disponibile per impedire che possa avere esiti
catastrofici è ormai limitato: abbiamo a disposizione pochi decenni per poter
contenere l’aumento di temperatura al di sotto dei 2°C.
Con i trend attuali, senza nuove e incisive misure di riduzione
delle emissioni di gas serra, si
andrebbe verso un aumento medio della temperatura media globale almeno
doppio di quello ritenuto sostenibile, cioè a circa 4°C: ciò esaspererebbe
ondate di calore, altri eventi atmosferici estremi, sconvolgimenti della
biodiversità e dell’ambiente, con gravi pericoli anche per la sicurezza della
produzione di cibo in vaste aree del pianeta.
I più poveri sono i più colpiti anche dalla crisi climatica, perché più
vulnerabili e con meno possibilità di finanziare misure di adattamento. Le possibilità di un
buon accordo per il clima a Parigi dipendono in buona parte dai tre principali
emettitori mondiali di gas serra: la Cina, gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Purtroppo gli impegni fino ad ora annunciati in vista di Parigi, secondo le stime
oggi disponibili, dalla Cina e dagli
Stati Uniti non sono sufficienti e sono ancora lontani dalla traiettoria
dei 2°C e anche l’Europa potrebbe fare meglio.
Dai grandi Paesi grandi emettitori, ci si auspica una strada di
riduzione delle emissioni equa, verso le 3 tonnellate di emissioni di CO2eq
pro-capite all’anno entro il 2050, compatibile con il contenimento
dell’aumento di temperatura entro i 2°C.Dopo ben 25
Conferenze internazionali inefficaci, in
vista della 26^ a Parigi, si spera in un maggiore impegno
di tutte le persone di buona volontà, perché non prevalgano gli egoismi, gli interessi
di breve termine, particolari e nazionali, ma si affermi, finalmente, una buona
politica, in grado di affrontare questa crisi climatica in modo equo, aprendo
la strada anche a nuove opportunità.
Giustizia
ambientale
La giustizia
ambientale si fonda su due presupposti, distinti, ma connessi. Il primo è
quello di un giusto rapporto fra l’uomo e la natura, fra l’umanità e il resto
del creato. La giustizia ambientale richiede la pratica di una buona relazione
con la natura: quella che ci porta ad essere custodi e non dominatori del
pianeta, ad essere buoni coltivatori che sanno utilizzare e mantenere nel tempo
la capacità della terra di dare buoni frutti e non sfruttatori e distruttori.
Il secondo
presupposto della giustizia ambientale è il pari diritto di accesso per tutte
le persone al patrimonio naturale comune: all’acqua potabile, all’aria pulita,
a un ambiente sano, a un territorio non inquinato.
Crisi
climatica e i suoi effetti
Secondo il quinto Report dell’IPCC i trend
attuali, senza misure aggiuntive di mitigazione, porteranno, entro la fine del secolo, a un innalzamento della temperatura media terrestre, rispetto al
periodo pre-industriale, compreso tra 3,7 e 4,8°C (con concentrazione di CO2eq fra 750 e
1300 ppm), a fronte di una soglia di sicurezza raccomandata, ed acquisita nella
trattativa sul nuovo Accordo globale per il clima, di +2°C (con concentrazioni
di CO2eq non superiori a 450ppm). Un riscaldamento globale di 4°C aggraverebbe
significativamente la scarsità di risorse idriche in molte regioni,
particolarmente nel Nord Africa e nell’Africa dell’Est, nel Medio Oriente e
nell’Asia del Sud. Condizioni di maggiore aridità coinvolgerebbero l’Europa
meridionale, l’Africa (ad eccezione di alcune zone del nord-est), ampie parti
del Nord America e del Sud America e l’Australia meridionale. Eventi estremi di siccità sarebbero
accompagnati da eventi estremi di piovosità concentrata in altri periodi
dell’anno nelle stesse aree o in altre aree del Pianeta. Il rischio di
dissesti negli ecosistemi come risultato degli incendi, della trasformazione
degli ecosistemi, del deperimento forestale, dell’aumento dell’aridificazione e
dell’avanzata della desertificazione, sarebbe significativamente più alto con
un riscaldamento di 4°C.
Sarebbe comunque impegnativo mantenere
livelli adeguati di produzione alimentare e agricola in risposta
all’accrescimento della popolazione e all’aumento dei livelli di reddito, ma ora,
nel trend in corso verso un aumento di 4°C, saremmo costretti a misurarci con
uno scenario drammatico prodotto da una riduzione nella resa delle colture man
mano che il pianeta si riscalda e i poveri sarebbero i più colpiti.
Nello scenario in corso dei +4°C i rifugiati
climatici assumerebbero una dimensione molto preoccupante. Nel
rapporto del 2012 del Segretario Generale all’Assemblea Generale delle Nazioni
Unite sui diritti umani e le migrazioni viene presentata una ricerca che stima
che più di 250 milioni di persone potranno essere sfollate a causa dei
cambiamenti climatici.
Gli impegni finora assunti sono insufficienti
Con i
negoziati per un nuovo Accordo per il clima, per il periodo post-2020, da
adottare alla COP21 di Parigi, a dicembre 2015, i vari paesi hanno accettato di
comunicare gli impegni di riduzione delle emissioni di gas di serra che sono
disposti ad assumersi, nel quadro del nuovo Accordo, prima della trattativa
finale della Conferenza di Parigi. Secondo
l’analisi effettuata sugli scenari emissivi del settore energetico (che conta
circa per i due terzi delle emissioni globali di gas serra), con gli attuali
impegni presi dai Governi, il budget disponibile di emissioni per il secolo
attuale verrebbe consumato comunque intorno al 2040, appena otto mesi più tardi
di quanto previsto in assenza degli impegni annunciati alla vigilia della
Conferenza di Parigi. Pur rallentando la crescita, le emissioni mondiali di
CO2 non diminuirebbero entro il 2030, ma
continuerebbero a crescere dell’8% tra 2013 e 2030 e il picco non sarebbe
raggiunto neppure nel 2030. Le emissioni mondiali di CO2 del settore
energetico, infatti, da 32,2 miliardi di tCO2 del 2013
anziché diminuire a 25,6 miliardi, come previsto dalla traiettoria dei 2°C,
crescerebbero a 34,8 miliardi di tCO2.
Analizzando il gap tra gli impegni dichiarati e lo scenario 450 ppm nei
principali Paesi emettitori di gas serra al 2030, l’IEA osserva che:
-
la Cina emetterebbe 3,7 miliardi di tonnellate di CO2 in più di
quelle previste dalla traiettoria per i 2°C (10,1contro 6,4 Gt),il 58% in più;
-
gli USA emetterebbero 1 miliardo di tonnellate di CO2 in più del
previsto nella traiettoria dei 2°C (4 GtCO2 contro 3
Gt), il 33% in più;
-
l’UE potrebbe fare meglio riducendo 2,4 invece di 2 GtCO2, il 20% in
più.
in vista dell'Accordo di Parigi
In vista
dell’Accordo di Parigi, si devono superare ancora notevoli difficoltà, oltre
che per avviare misure impegnative di adattamento, soprattutto per arrivare a
tagli sufficienti delle emissioni di gas serra. Per la prima volta in 40 anni,
i dati attuali ci confermano che le emissioni di gas serra da processi
energetici non sono aumentate pur in presenza di una crescita del PIL mondiale
del 3%. Negli ultimi 40 anni, le emissioni sono rimaste stabili o sono
diminuite rispetto all’anno precedente solo tre volte e tutte e tre le volte è
accaduto in corrispondenza con un anno di crisi dell’economia mondiale.
Mozione
presentata in Senato sui cambiamenti climatici in vista della Conferenza di
Parigi
Insieme
ad altri colleghi prima dell'estate abbiamo presentato una mozione sui cambiamenti climatici affinché si faccia uno sforzo in più per far si che a
Parigi si trovi un accordo. Abbiamo chiesto al governo un impegno sul fronte internazionale
perché l'Unione europea riveda al rialzo gli obiettivi previsti dal pacchetto clima-energia
al 2030, riducendo del 45 per cento le emissioni, arrivando ad una quota di
rinnovabili del 40 per cento e aumentando l'efficienza energetica al 35%. La
Conferenza delle parti di Parigi deve partorire un accordo globale vincolante e
aderente ai risultati dei rapporti scientifici dell'IPCC per contenere
l'aumento della temperatura entro i 2 gradi centigradi. Abbiamo chiesto forme
di fiscalità ambientale che rivedano in senso sostenibile le imposte
sull'energia e sull'uso delle risorse. Riteniamo inoltre sia necessario
favorire la transizione verso un sistema energetico più sicuro e sostenibile,
con investimenti sulla generazione, sulle reti e sull'efficienza energetica e
rimuovendo subito tutti gli incentivi e i sussidi diretti e indiretti ai
combustibili fossili. Entro la fine di questo mese ci auguriamo venga approvata
la Strategia nazionale sui cambiamenti climatici elaborata dal ministero. Serve
una 'Roadmap della decabornizzazione' che riguardi tutti i settori, per
perseguire gli obiettivi comunitari al 2050. Va sostenuta la ricerca, promosse
le smart city, favorita la diffusione del gas naturale e sono necessari
interventi sui trasporti, con un'ulteriore riduzione delle emissioni delle
automobili e un potenziamento delle alternative. Infine gli interventi per la
riduzione delle emissioni a tutti i livelli di governo vanno svincolati dal
Patto di stabilità perché sono un investimento nel futuro e sullo sviluppo.