Signor Presidente, onorevoli colleghi,
ci troviamo dinanzi a una proposta di legge controversa e divisiva sulla quale bisogna ragionare con assoluta lucidità e serenità d'animo, fuori da qualsiasi logica aprioristica e chiusa al dialogo.
Vorrei sottolineare come chi contesta questa proposta non è contrario tout court al consenso informato o alla possibilità delle DAT, ma devono essere le due questioni, consenso informato e DAT, proporzionate alla situazione reale. Invece ci troviamo ad affrontare, così come pervenuta a quest'Assemblea dalla Camera dei deputati, una proposta di legge che, a mio avviso, va in una direzione sbagliata e dissennata. È una legge che ha un forte contenuto eutanasiaco. È una legge che, partendo dal concetto di pietà, di fatto, si trasforma, attraverso un meccanismo di perversione della pietà, in un sorta di abominio. Spiegheremo perché.
Stamane, nel mio intervento sulle questioni pregiudiziali di costituzionalità, sono partito da un assunto che voglio qui ripetere: nessuno di noi vive per se stesso, nessuno di noi muore per se stesso. Invece, l'assunto di questa legge è assolutamente contrario a tale principio, perché parte dall'idea dell'autodeterminazione della persona e questa autodeterminazione arriva fino a far considerare come diritto disponibile da parte del soggetto la vita.
Sinora abbiamo sempre ragionato in un sistema di leggi morali, che sono state poi tradotte in principi costituzionali, recepite anche nella nostra Costituzione, e anche in un sistema ordinamentale e in una serie di sentenze che si sono susseguite nella giurisprudenza in questi decenni, che hanno considerato come la vita non sia un bene disponibile. Orbene, questo è a nostro avviso il presupposto da cui parte questa proposta di legge e da cui partono tutti gli errori che tra poco illustrerò.
Ci sono quindi aspetti da approfondire e un primo no certamente è indirizzato al valore praticamente definitivo delle DAT, espressione di una presunzione culturale che ritiene possibile misurare a priori la realtà proprio quando essa si fa urgente nel dolore. È arrogante chi vuole legiferare sull'ignoto, o meglio sul mistero. È assolutamente folle e arrogante chi vuole impadronirsi della morte andando addirittura a vagheggiare una dolce morte.
Poi c'è un'altra serie di questioni sulle quali concentreremo la nostra attenzione. La prima è che siamo passati da un testo che parlava di «dichiarazioni» a un testo in cui si parla di «disposizioni». Altra questione è quella di considerare la nutrizione e l'idratazione un trattamento sanitario. C'è poi la questione della revoca delle DAT, quella che riguarda i minori e gli incapaci, e tutto ciò non tiene conto di due aspetti fondamentali: l'attualità delle varie situazioni che si vanno a creare e la loro contestualizzazione.
Di fatto si va verso un riconoscimento del suicidio, che si trasforma, via via, da suicidio assistito in omicidio consentito. In tutto questo c'è una deminutio della figura del medico: il medico che si è sempre occupato del bene integrale della persona, della salvaguardia della vita e dell'integrità psicofisica del paziente, viene trasformato, nell'articolato di questa proposta di legge, in una sorta di esecutore, un mero esecutore che rischia di trasformare la proprio azione professionale addirittura in reato e quindi in illecito.
Soprattutto, in questo disegno di legge c'è un divieto all'obiezione di coscienza, che non viene assolutamente riconosciuta. A sua volta, ciò rappresenta una violazione del diritto italiano, del diritto costituzionale e anche del diritto internazionale. Sappiamo come quello all'obiezione di coscienza sia un diritto fondamentale della persona e questo sicuramente è da estendere non solo alla persona, ma anche alle strutture; la norma, invece, prevede l'obbligatorietà dell'applicazione a tutte le strutture, sia pubbliche che private.
Tutto questo deriva da un'idea di uomo cui viene, per così dire, sconsigliata e scoraggiata la speranza e le domande di senso e verità che, soprattutto nel dolore, rendono misteriosa e spesso mirabile la natura umana.
Qualche giorno fa il direttore dell'unità di cura palliativa di un'importante ASL poneva questa domanda: «Perché dobbiamo in gran fretta assicurare il diritto di morire, prima di aver fatto tutto il possibile per garantire a chi è in condizioni incurabili o croniche la stessa accoglienza, lo stesso rispetto, le stesse opportunità, senza limitazioni di tempo, dovuti a tutti gli altri?».
Vorrei anche focalizzare una parte del mio intervento, così come avevo anticipato, sull'aspetto che riguarda la nutrizione e l'idratazione artificiali. Sono andato a rinfrescarmi la memoria. Molti colleghi sanno che sono un medico, ma avevo dei dubbi e può darsi che i miei studi fossero datati nel tempo, visto che mi sono laureato nel lontano 1982. Ma ancora oggi i manuali della professione medica operano una precisa distinzione tra due concetti erroneamente considerati sinonimi: un principio è quello della terapia, con cui si intende ogni trattamento sanitario finalizzato alla guarigione del malato; invece, per cura si intende ogni presidio assistenziale destinato alla cura della persona. Da questa distinzione deriva che la terapia è in relazione alla malattia, mentre la cura è relazionata alla persona. Se non c'è malattia non c'è terapia, mentre ovunque ci sia una persona, c'è sicuramente cura e questo indipendentemente dalle condizioni di salute.
A quale logica risponde l'affermazione per cui, quando la suddetta cura viene praticata da altra persona, in quanto il soggetto non è autonomo, diventa una terapia, anzi un accanimento terapeutico, che, in quanto tale, può essere sospeso?
Non è accettabile che si ignori o venga totalmente disatteso il pensiero con cui si è più volte espresso il Comitato nazionale per la bioetica, il quale, investito direttamente del problema, sostiene che alimentazione e idratazione artificiali, in quanto mezzi ordinari di sostegno vitale, non possono essere considerati terapie in senso stretto e fanno parte delle cure assistenziali dovute a ogni malato, soprattutto se inabile. Acqua e cibo non diventano una terapia medica soltanto perché vengono somministrati per via artificiale. La sospensione di nutrizione e di alimentazione va valutata non come doverosa interruzione di un accanimento terapeutico, ma piuttosto come una forma particolarmente crudele di abbandono del paziente. La richiesta delle DAT di un tale trattamento si configura come la richiesta di una vera e propria eutanasia omissiva, omologabile sia eticamente che giuridicamente a un intervento eutanasico attivo, illecito sotto ogni profilo.
Comunque, anche per quanto riguarda la nutrizione e l'idratazione artificiali, deve valere il principio di appropriatezza: se l'alimentazione e l'idratazione appaiono appropriate rispetto allo stato clinico del paziente, non costituiscono accanimento terapeutico e non possono essere in ogni caso sospese.
Ovviamente, qualora il medico si trovasse di fronte a una condizione di malassorbimento, di rigetto, di non assimilazione, di stasi del circolo per deficit cardiocircolatorio, sarà il primo garante dell'interruzione, in quanto presidio non appropriato e dannoso. (Richiami della Presidente).
Potrei continuare ancora con altre osservazioni, ma le chiedo, signora Presidente, ancora un minuto di pazienza. Ritengo che l'errore fondamentale di chi vuole questa legge sia quello di voler superare il senso del limite; quel senso del limite che nella legge morale, che prescinde da tutte le altre leggi, perché ne è all'origine, dovrebbe sempre far distinguere all'uomo quello che deve essere fatto da quello che non deve fare. Allora, signora Presidente, mi chiedo ancora una volta: qui dentro, quis ut deus? (