Presidente! Onorevoli
colleghi!
Dopo l'esame della Camera
dei deputati, anche in questa Commissione si è svolto un proficuo
ciclo di audizioni, segno del giusto interesse del Senato per il tema, oggetto
dei numerosi provvedimenti in esame, e fonte di interessanti spunti di
riflessione. Su questa base, ritengo utile per lo sviluppo del dibattito fare
chiarezza su quali sono aspetti più critici rispetto ai quali il testo del
disegno di legge, secondo il gruppo che rappresento, dovrà fornire risposte
parzialmente diverse dalle soluzioni adottate dalla Camera. In primo luogo, si
pone la questione di quale può essere il contenuto proprio delle dichiarazioni
anticipate di trattamento (DAT), se relativo alla sola fase di fine vita o con
una portata più ampia. Inoltre, una analisi attenta ed equilibrata non può
prescindere dalle valutazioni sul peso da assegnare in termini di
vincolatività. In questa ottica appare, inoltre, essenziale considerare la
possibilità di modulare la loro validità sul piano temporale, anche alla luce
di un cambio di prospettiva da parte del soggetto sulla base del proprio
vissuto. Vorrei rimarcare in questa sede anche l'utilità di una riflessione
sulla natura delle DAT, nel contesto della relazione tra paziente e medico e
tenendo conto della libertà di coscienza di quest'ultimo. Come hanno fatto già
altri colleghi in altre occasioni, ricordo che il tema dei trattamenti
salvavita non è nuovo di questa legislatura: infatti nella passata legislatura il
Parlamento ha già discusso di queste tematiche e, nonostante in alcune
occasioni il traguardo di una disciplina equilibrata sembrasse quasi raggiunto,
è stato proprio il nodo delle pratiche di nutrizione e idratazione a
rappresentare il punto di contrasto tra le varie anime politiche e a rivelarsi
non componibile.
Il testo in
discussione sembra normare senza il necessario grado di approfondimento alcuni
aspetti estremamente delicati della materia: mi riferisco al tema delle
pratiche salva vita, inclusa la nutrizione e l'idratazione artificiali,
considerate trattamenti sanitari e non attività destinate esclusivamente ad
assicurare la sopravvivenza. Inoltre, sembra particolarmente pericolosa la
scelta di non porre alcun limite alla rinuncia ai trattamenti salva vita, con
il conseguente grave rischio, anche al di là delle intenzioni di qualcuno, che
in tal modo si rendano possibili pratiche eutanasiche. Un approccio scevro da
condizionamenti ideologici ci deve condurre alla riflessione secondo la quale
il paziente che afferma di non farcela più può manifestare non un desiderio di
morte ma una richiesta di aiuto. Il testo in esame non affronta la complessità
di tale richiesta, così come trascura potenziali situazioni di depressione alla
base di certe scelte.
Non
dobbiamo correre il rischio di banalizzare il tema delle espressioni utilizzate
nel testo, a cominciare dalla scelta di prevedere «disposizioni» anticipate di
trattamento, e dobbiamo invece prestare molta attenzione a quanto accade in
realtà come il Belgio e i Paesi Bassi. In questi Stati europei, si è ormai
giunti a consentire di praticare l'eutanasia anche in relazione a persone
minorenni e si sviluppano strumenti di dubbia utilità come il congelamento di
malati terminali. Un'altra riserva che sento di dover condividere con la Commissione
riguarda la scarsa attenzione prestata dal testo in discussione al ruolo del
medico e al diritto all'obiezione di coscienza. Non vengono riconosciute le
competenze e le responsabilità derivanti dall'applicazione del codice
deontologico, lasciando ai medici una funzione quasi notarile. Un altro aspetto
su questo tema che necessariamente richiede interventi emendativi riguarda
proprio la figura del medico, che esercita normalmente la sua professione non
per aiutare il paziente a morire ma nel senso diametralmente opposto. Il testo
non approfondisce tale problematica. Non viene inoltre concessa la necessaria
attenzione al tema della collegialità delle pratiche mediche, con i conseguenti
problemi rispetto all'attribuzione di responsabilità. Altro punto critico in
questa parte del provvedimento è rappresentato dalla scarsa chiarezza del
rapporto tra il medico e l'istituzione sanitaria in cui si trova ad operare,
considerando che, nei casi oggetto del testo, alcune responsabilità investono
profili di tipo penale.
Un altro
aspetto sul quale, a mio avviso, il testo non fa sufficiente chiarezza riguarda
le modalità di ricostruzione delle disposizioni di volontà (DAT), che sono
modificabili in qualsiasi momento, fino all'ultimo. Il problema è che non si
capisce come potrà conciliarsi la manifestazione di volontà fatta da ultimo con
mezzi non registrabili con quella, magari contraria, resa per iscritto e
debitamente registrata. A mio parere, su tale punto, il testo in esame non
tiene nel dovuto conto l'evoluzione della consapevolezza esistenziale di
ciascuno, a seconda delle situazioni vissute.
Un'altra criticità riguarda il fatto
che il testo in esame non tiene in conto il ricco dibattito svolto sulla
materia nelle scorse legislature e, in particolare, in quella precedente,
quando il Parlamento fu chiamato a intervenire per dirimere il caso di Eluana
Englaro, la cui complessità aveva causato un'aperta diversità di vedute tra le
istituzioni.
Alcune disposizioni, quali quelle
riguardanti la revoca o il cambiamento della manifestazione di volontà sembrano
di problematica applicazione; altre, quali la possibilità di richiedere la
sospensione della idratazione e della nutrizione o la mancata previsione della
possibilità per il medico di esercitare l'obiezione di coscienza creano un
sistema zoppo e sbilanciato. In particolare, vorrei osservare che, così come la
legge sull'aborto, anche il provvedimento in esame, avendo indiscutibilmente un
carattere eutanasico, debba prevedere espressamente la possibilità dell'obiezione
di coscienza per il medico, che, al contrario, appare vincolato oltre la
deontologia professionale e oltre quanto richiesto a qualsiasi altra figura
professionale. Per di più, spingendo alle estreme conseguenze il dettato del
testo, potrebbe risultare possibile addirittura immaginare l'obbligo per il
medico di applicare qualsiasi terapia richiesta dal paziente, anche contraria
alle evidenze scientifiche.
In linea generale, il testo, ben
potendo essere interpretato come di natura eutanasica, non tiene conto neanche
del dibattito affrontato in sede di Comitato nazionale per la bioetica, che ha
ritenuto possibile, diversamente da quanto affermato in ambito cattolico, la
possibilità di conciliare con un provvedimento legislativo la libertà del
paziente, la deontologia del medico e il favor vitae.
Colleghi,
siamo preoccupati dal fatto che sottesa a questo provvedimento vi sia una
visione ingannevole della società e del concetto di libertà individuale. La
concezione prevalentemente libertaria è sfociata in una sorta di «cultura del
desiderio», nella quale il valore sacro della vita risulta sminuito. Non
dobbiamo trasmettere, attraverso questo provvedimento, un concetto
di svilimento del valore della vita fino a considerare come liberamente opzionabile
il modello di eutanasia. Ricordo ancora una volta che il dibattito sul «fine
vita» è in corso in maniera costruttiva ormai da tre legislature, ma
l'accelerazione improvvisa data al provvedimento in esame fa emergere una
palese discrasia tra il Parlamento ed il Paese reale, nel quale si registrano
posizioni decisamente differenti su tali materie. Parliamo infatti, nelle
nostre discussioni, dell'idea di vita che, come tale, non può essere trattata
come un qualsiasi argomento politico, al quale applicare le logiche di
maggioranza. Non possiamo correre il rischio di estremizzare le tesi di puro
individualismo in cui non sarebbe possibile decidere sulla vita degli altri e
in cui i cittadini devono essere lasciati liberi di decidere su determinati
aspetti: rischieremmo di sfociare in situazioni oltre il limite della comune
morale verificatesi in alcuni paesi del nord Europa. In altre parole, non
possiamo offrire il fianco ad una escalation dei valori eutanasici che, nelle
citate esperienze, ha portato addirittura alla realizzazione di veri e propri
kit attraverso i quali i malati possono darsi la morte. Chi attribuisce un così
scarso valore alla vita – tanto da ricorrere a tali pratiche – è colui che si
trova in una condizione di estrema solitudine, e ricordo al riguardo
l'esperienza degli anziani, i quali conservano più a lungo il loro equilibrio
mentale allorquando vivono in contesti sociali di gruppo, come le famiglie o le
comunità.
Una tale concezione della vita non è
assolutamente un segno di civiltà, non è frutto di una estrema pietà, ma è
soltanto il risultato di una malintesa pretesa libertaria, tesa a riafferma
l'egoismo di poter fare tutto ciò che si vuole: invece, ritengo che si debba
riaffermare in maniera netta che vi sono degli aspetti indisponibili relativi
alla vita degli individui. Alcune distorsioni, che possono potenzialmente
sorgere dal disegno di legge in esame, lasciano spazio al diffondersi di teorie
di destrutturazione di concetti fondamentali, oltre a quello della vita, come
quelli della tutela della salute, della libertà di autodeterminazione e di
finalità assistenziale della comunità.
Nel testo del provvedimento siamo
necessariamente chiamati a chiarire la differenza tra dichiarazioni e
disposizioni anticipate di trattamento, a specificare meglio il ruolo del
medico e la relazione con il paziente, ad approfondire i temi della qualità
della vita correlata alle cure palliative e della possibilità di sospendere
idratazione e nutrizione artificiali.
La salute di ognuno di noi è un bene individuale ma anche sociale,
collettivo che merita di essere perseguito favorendo l’accoglienza,
l’accompagnamento e la cura delle situazioni di dolore fino alla fine naturale
della vita. Questo provvedimento, invece, restituisce l'immagine di un uomo
come un individuo isolato, non dipendente da niente e da nessuno se non dalla
propria volontà. Ma è poi davvero così? È davvero sempre libera e certa una
decisione presa a priori, magari in stato di salute o magari invece incalzata
qualche volta da chi ci sta intorno?
L’uomo, nel bene e nel male, è sempre
in relazione: nasciamo non per nostra scelta in un luogo non scelto che
determinerà la nostra vita, “dipendiamo” dalla famiglia, dalla scuola, dal
datore di lavoro, da chi sposeremo, dai figli che avremo, dal medico che ci
curerà. Tutto questo costituisce quella trama di rapporti in cui l’uomo cresce,
matura, pensa, produce, ama ed esercita la sua libertà di uomo. È sicuramente
un percorso a volte difficile e faticoso, ma naturale. Le persone che abbiamo
intorno non sono per forza nemiche: nel corso della malattia, a maggior
ragione, il medico che ci cura è ancora più prezioso dei familiari, rappresenta
una figura a cui tutti fanno riferimento. Sappiamo da subito che farà il nostro
bene, anche quando non sarà più possibile raggiungere il nostro benessere. E
questo proprio in virtù del giuramento che ha pronunciato. Viene, invece, qui
introdotto con forza, un “nuovo” principio, il principio
dell’”autodeterminazione” del paziente e mentre si afferma che “è promossa e
valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico...” di
fatto si stravolge il rapporto tra i due. Non si garantisce più un’alleanza
serena basata sulla fiducia, ma si configura il rischio di una contrapposizione
contrattualistica, come si è visto nei Paesi dove già questo principio è stato
assunto: in altre parole, si riduce il medico a prestatore d’opera,
introducendo il rischio per tutto il personale sanitario di conflitti fra
posizioni divergenti, di fatto indebolendo gravemente l’autorevolezza e la
possibilità di azione dei sanitari stessi. Sparisce quell’alleanza umana
proprio nel momento in cui dovrebbe essere più intensa, più decisiva.
Siamo di fronte ad una società con
prevalenza di grandi anziani con patologie croniche e quindi potenzialmente con
grandi costi per la collettività; allo stesso modo è rilevante la fascia di
persone malate e sofferenti di tutte le età, ed è da qui che si è messo in moto
il meccanismo per dar loro la possibilità di rinunciare o di interrompere le
cure per propria volontà. Se è vero che ci sono persone che chiedono di morire,
ce ne sono moltissime altre che continuano a vivere sentendosi amate ogni
giorno, oppure, che anche nella solitudine godono delle piccole cose quotidiane
e che portano la loro sofferenza come esempio di quanto grande possa essere
l’amore dell’uomo per la sua vita. A livello personale, è veramente difficile
per ognuno di noi ipotizzare come vivremmo la drammaticità di quei momenti.
Infine, vorrei sottolineare come disposizioni
relative a stesura, gestione, revoca dei DAT, cioè la parte “burocratica” del
provvedimento, nascondono molti rischi di interpretazione e rivelano la
debolezza di tutto l’impianto normativo. In un contesto così a rischio di
possibili incomprensioni, e quindi di altrettante possibili contestazioni fra
le parti, e in presenza di circostanze così difficili e delicate come il fine
vita non può non essere garantita, accanto alla libertà di scelta del paziente
anche la libertà di scelta del medico. Questa omissione, che appare singolare,
ha un precedente significativo nella recente legislazione sulle Unioni civili
nei confronti dei Sindaci e degli ufficiali di stato civile. Se il diritto
all’obiezione di coscienza non è espressamente e chiaramente esplicitato potrà
diventare oggetto di contestazioni e controversie, se non addirittura negato
nei fatti come già avviene appunto nel caso delle Unioni
civili.