Premesso che, secondo quanto risulta agli interroganti:con deliberazione 23 dicembre 2016 n. 16/2016/G, la Corte dei conti ha pubblicato la relazione riguardante la "destinazione e gestione dell'8 per mille dell'Irpef: le azioni intraprese a seguito delle deliberazioni della Corte dei conti";
come ogni anno, sulla base del referto della Corte dei conti, quotidiani come "la Repubblica" o "il Fatto Quotidiano" rincarano la dose, stigmatizzando il fatto che la chiesa cattolica incassa l'80 per cento della destinazione dell'8 per mille sulla dichiarazione Irpef, senza tener conto che si tratta di una libera scelta dei contribuenti;
destinare la quota dell'Irpef alla chiesa cattolica o a un'altra confessione religiosa non è obbligatorio, ma la legge n. 222 del 1985 (art. 47) stabilisce che l'8 per mille di chi non effettua la scelta viene ripartito tra i beneficiari "in proporzione alle scelte espresse". In tal modo, per i magistrati contabili, vengono violate proporzionalità e uguaglianza;
considerato che:
secondo i giudici, sarebbe "opportuna una rinegoziazione tra Stato e confessioni religiose del sostegno finanziario che arriva con l'8 per mille". L'8 per mille, scrivono i magistrati contabili, vale 1,2 miliardi di euro all'anno ma non rispetta "i principi di proporzionalità, volontarietà e uguaglianza". Infatti i beneficiari "ricevono più dalla quota non espressa che da quella optata". E su questo nodo "non vi è un'adeguata informazione, benché coloro che non scelgono siano la maggioranza e si possa ragionevolmente essere indotti a ritenere che solo con un'opzione esplicita i fondi vengano assegnati";
in pratica, evidenzia la Corte, la maggioranza degli italiani (negli ultimi anni circa il 54 per cento) quando compila la dichiarazione dei redditi non indica a chi vuole destinare la quota. D'altronde si tratta di un'opzione, non di un obbligo; inoltre, la legge citata, varata quasi 30 anni fa con il Governo Craxi, stabilisce che l'8 per mille di chi non effettua la scelta sia ripartito tra i beneficiari "in proporzione alle scelte espresse";
lo Stato "mostra disinteresse per la quota di propria competenza", di qui la drastica riduzione delle quote a suo favore. Lo "Stato, secondo l'analisi della Corte, è l'unico competitore che non sensibilizza l'opinione pubblica sulle proprie attività con campagne pubblicitarie", pertanto si evidenzia "la marginalizzazione dell'iniziativa pubblica e la compromissione della possibilità di ricevere maggiori introiti";
ad aggravare tale situazione è l'annoso problema della destinazione delle poche risorse (170 milioni di euro stando agli ultimi dati) che finiscono nelle casse pubbliche: la legge prevede che vengano utilizzate per "scopi di interesse sociale o di carattere umanitario", ma da sempre i Governi tendono a utilizzarle come un bancomat per tamponare altre necessità. Così non di rado, in passato, le leggi finanziarie hanno distratto una quota di fondi destinandoli alle esigenze più diverse, comprese le missioni militari all'estero. Queste finalità sono chiaramente "antitetiche alla volontà dei cittadini" che vorrebbero destinare il loro contributo alla lotta alla fame nel mondo, all'assistenza ai rifugiati, agli interventi contro le calamità naturali o alla conservazione dei beni culturali statali, ovvero gli scopi per cui lo Stato dovrebbe impiegare la quota di sua competenza;
così l'82 per cento delle risorse finisce alla chiesa cattolica, mentre solo il 13,32 per cento allo Stato, 3,2 per cento ai valdesi e percentuali ridottissime alle altre confessioni religiose;
considerato, inoltre, che:
la Conferenza episcopale italiana ha risposto con un comunicato al clamore mediatico scatenato dai quotidiani e dalle dichiarazioni della Corte dei conti; ad avviso della Cei "le affermazioni contenute nella Relazione circa l'entità del finanziamento - che non solo evocano l'attivazione da parte statale delle procedure di revisione del sistema ma si spingono fino a ritenere in parte venute meno le ragioni che giustificano tale sistema - presentano profili problematici e in talune formulazioni risultano esorbitanti". Col sistema dell'8 per mille "è stata attribuita ai cittadini la facoltà di decidere quale debba essere la destinazione di una quota del bilancio dello Stato misurata su una parte del gettito Irpef. Un caso di democrazia nell'indirizzo della spesa pubblica, nell'ambito di finalità predefinite, che coinvolge anche il cittadino non praticante o addirittura non credente, il quale apprezza l'opera della Chiesa in Italia e intende che la collettività nazionale la riconosca e la sostenga, assegnandole una quota, seppur modesta, del gettito fiscale. In uno Stato democratico-sociale come il nostro, l'apporto alle confessioni religiose delle risorse pubbliche è fondato sull'apprezzamento della rilevanza sociale, culturale ed etica della presenza e dell'azione della Chiesa e sul compito, che la Costituzione italiana assegna alla Repubblica, di rimuovere gli ostacoli e di promuovere le condizioni per il pieno esercizio delle libertà fondamentali dei cittadini, tra le quali vi è indubbiamente la libertà religiosa". Pertanto, "occorre evitare il rischio di una visione parziale, che non solo ignora o trascura i benefici per la collettività che derivano dall'impiego dell'8 per mille da parte delle confessioni religiose, ma finisce per mettere in discussione i capisaldi del sistema, prospettando opzioni di politica del diritto discutibili nel merito e comunque estranee al perimetro dell'indagine amministrativa contabile";
in ogni caso, l'impiego del gettito della quota dell'8 per mille Irpef è stato sempre oggetto della valutazione triennale della commissione paritetica istituita a norma dell'art. 49 della legge n. 222 del 1985, con giudizi di sostanziale e condiviso apprezzamento circa la funzionalità del sistema, maturato all'esito di un esame rigoroso;
per quel che concerne il meccanismo tanto criticato delle cosiddette scelte non espresse, si deve osservare che la mancata espressione della propria scelta non equivale (e non può esservi assimilata in via interpretativa) al rifiuto del sistema o alla volontà di non parteciparvi. La scelta del legislatore è stata quella di ripartire una quota dell'Irpef generale sul modello delle votazioni politiche, momento esemplare di partecipazione democratica, dove il numero dei votanti non determina il numero dei seggi da assegnare, che sono infatti tutti assegnati, anche se non tutti gli elettori si recano alle urne. Questa scelta rimane ancora oggi pienamente attuale, in quanto ispirata a ragioni di principio che non possono essere ignorate per esigenze economiche contingenti, che invero sembrano rappresentare la motivazione prevalente, se non esclusiva, di alcune ipotesi alternative emerse nel dibattito;
sembra, oltre tutto, di cattivo gusto per gli interroganti, e al di fuori delle competenze dei giudici contabili, insinuare dei dubbi sul corretto operato degli intermediari ed in particolare dei Caf, quando unicamente nell'1,67 per cento dei casi esaminati le scelte del contribuente non risultano trasmesse correttamente dal Caf;
ritenuto che:
"la Repubblica", nei suoi articoli, considera l'acquisizione dell'82 per cento delle risorse dell'8 per mille da parte della chiesa cattolica quale risultato degli spot pubblicitari della Cei, senza considerare che i contribuenti evidentemente si fidano più della chiesa che dello Stato sull'uso dei propri soldi;
in un articolo del 15 gennaio 2017 si legge: "La Chiesa cattolica, scatenata, le tenta tutte pur di fare il pieno di soldi con il meccanismo dell'8 per mille. E si affida soprattutto a campagne di spot in tv, che risultano "martellanti" ed efficacissime. Invece lo Stato italiano - che pure avrebbe bisogno di questo contributo, ad esempio per ristrutturare le scuole - non si impegna per convincere i contribuenti. La Corte dei conti, sorpresa dalla timidezza dei nostri governi, ha anche altri dubbi. Contesta allo Stato italiano di essere sleale quando impiega i soldi che riceve (quasi suo malgrado) dall'8 per mille",
si chiede di sapere:
se il Governo non ritenga opportuno attivare tutti i canali di mediazione, al fine di rimodulare i toni delle testate giornalistiche in merito a questioni e polemiche ad avviso degli interroganti infondate, tenuto conto che il meccanismo di elargizione dell'8 per mille è disciplinato per legge e non vi sono evidenze circa uno scorretto utilizzo da parte della Conferenza episcopale italiana;
se non ritenga opportuno attivare tutte le relazioni fra i poteri dello Stato, affinché i giudici contabili si limitino a relazionare le evidenze oggettive e i dati statistici, evitando giudizi di valore che esulano dalle competenze loro attribuite;
considerata ad avviso degli interroganti l'evidente incapacità dello Stato nel gestire le risorse dell'8 per mille e gli strumenti connessi, se non ritenga opportuno riformare il meccanismo piuttosto che accusare infondatamente altre istituzioni o organismi che hanno dato prova nel corso del tempo di riuscire a colmare e sostituire l'azione sociale pubblica, in molti casi inefficiente.
come ogni anno, sulla base del referto della Corte dei conti, quotidiani come "la Repubblica" o "il Fatto Quotidiano" rincarano la dose, stigmatizzando il fatto che la chiesa cattolica incassa l'80 per cento della destinazione dell'8 per mille sulla dichiarazione Irpef, senza tener conto che si tratta di una libera scelta dei contribuenti;
destinare la quota dell'Irpef alla chiesa cattolica o a un'altra confessione religiosa non è obbligatorio, ma la legge n. 222 del 1985 (art. 47) stabilisce che l'8 per mille di chi non effettua la scelta viene ripartito tra i beneficiari "in proporzione alle scelte espresse". In tal modo, per i magistrati contabili, vengono violate proporzionalità e uguaglianza;
considerato che:
secondo i giudici, sarebbe "opportuna una rinegoziazione tra Stato e confessioni religiose del sostegno finanziario che arriva con l'8 per mille". L'8 per mille, scrivono i magistrati contabili, vale 1,2 miliardi di euro all'anno ma non rispetta "i principi di proporzionalità, volontarietà e uguaglianza". Infatti i beneficiari "ricevono più dalla quota non espressa che da quella optata". E su questo nodo "non vi è un'adeguata informazione, benché coloro che non scelgono siano la maggioranza e si possa ragionevolmente essere indotti a ritenere che solo con un'opzione esplicita i fondi vengano assegnati";
in pratica, evidenzia la Corte, la maggioranza degli italiani (negli ultimi anni circa il 54 per cento) quando compila la dichiarazione dei redditi non indica a chi vuole destinare la quota. D'altronde si tratta di un'opzione, non di un obbligo; inoltre, la legge citata, varata quasi 30 anni fa con il Governo Craxi, stabilisce che l'8 per mille di chi non effettua la scelta sia ripartito tra i beneficiari "in proporzione alle scelte espresse";
lo Stato "mostra disinteresse per la quota di propria competenza", di qui la drastica riduzione delle quote a suo favore. Lo "Stato, secondo l'analisi della Corte, è l'unico competitore che non sensibilizza l'opinione pubblica sulle proprie attività con campagne pubblicitarie", pertanto si evidenzia "la marginalizzazione dell'iniziativa pubblica e la compromissione della possibilità di ricevere maggiori introiti";
ad aggravare tale situazione è l'annoso problema della destinazione delle poche risorse (170 milioni di euro stando agli ultimi dati) che finiscono nelle casse pubbliche: la legge prevede che vengano utilizzate per "scopi di interesse sociale o di carattere umanitario", ma da sempre i Governi tendono a utilizzarle come un bancomat per tamponare altre necessità. Così non di rado, in passato, le leggi finanziarie hanno distratto una quota di fondi destinandoli alle esigenze più diverse, comprese le missioni militari all'estero. Queste finalità sono chiaramente "antitetiche alla volontà dei cittadini" che vorrebbero destinare il loro contributo alla lotta alla fame nel mondo, all'assistenza ai rifugiati, agli interventi contro le calamità naturali o alla conservazione dei beni culturali statali, ovvero gli scopi per cui lo Stato dovrebbe impiegare la quota di sua competenza;
così l'82 per cento delle risorse finisce alla chiesa cattolica, mentre solo il 13,32 per cento allo Stato, 3,2 per cento ai valdesi e percentuali ridottissime alle altre confessioni religiose;
considerato, inoltre, che:
la Conferenza episcopale italiana ha risposto con un comunicato al clamore mediatico scatenato dai quotidiani e dalle dichiarazioni della Corte dei conti; ad avviso della Cei "le affermazioni contenute nella Relazione circa l'entità del finanziamento - che non solo evocano l'attivazione da parte statale delle procedure di revisione del sistema ma si spingono fino a ritenere in parte venute meno le ragioni che giustificano tale sistema - presentano profili problematici e in talune formulazioni risultano esorbitanti". Col sistema dell'8 per mille "è stata attribuita ai cittadini la facoltà di decidere quale debba essere la destinazione di una quota del bilancio dello Stato misurata su una parte del gettito Irpef. Un caso di democrazia nell'indirizzo della spesa pubblica, nell'ambito di finalità predefinite, che coinvolge anche il cittadino non praticante o addirittura non credente, il quale apprezza l'opera della Chiesa in Italia e intende che la collettività nazionale la riconosca e la sostenga, assegnandole una quota, seppur modesta, del gettito fiscale. In uno Stato democratico-sociale come il nostro, l'apporto alle confessioni religiose delle risorse pubbliche è fondato sull'apprezzamento della rilevanza sociale, culturale ed etica della presenza e dell'azione della Chiesa e sul compito, che la Costituzione italiana assegna alla Repubblica, di rimuovere gli ostacoli e di promuovere le condizioni per il pieno esercizio delle libertà fondamentali dei cittadini, tra le quali vi è indubbiamente la libertà religiosa". Pertanto, "occorre evitare il rischio di una visione parziale, che non solo ignora o trascura i benefici per la collettività che derivano dall'impiego dell'8 per mille da parte delle confessioni religiose, ma finisce per mettere in discussione i capisaldi del sistema, prospettando opzioni di politica del diritto discutibili nel merito e comunque estranee al perimetro dell'indagine amministrativa contabile";
in ogni caso, l'impiego del gettito della quota dell'8 per mille Irpef è stato sempre oggetto della valutazione triennale della commissione paritetica istituita a norma dell'art. 49 della legge n. 222 del 1985, con giudizi di sostanziale e condiviso apprezzamento circa la funzionalità del sistema, maturato all'esito di un esame rigoroso;
per quel che concerne il meccanismo tanto criticato delle cosiddette scelte non espresse, si deve osservare che la mancata espressione della propria scelta non equivale (e non può esservi assimilata in via interpretativa) al rifiuto del sistema o alla volontà di non parteciparvi. La scelta del legislatore è stata quella di ripartire una quota dell'Irpef generale sul modello delle votazioni politiche, momento esemplare di partecipazione democratica, dove il numero dei votanti non determina il numero dei seggi da assegnare, che sono infatti tutti assegnati, anche se non tutti gli elettori si recano alle urne. Questa scelta rimane ancora oggi pienamente attuale, in quanto ispirata a ragioni di principio che non possono essere ignorate per esigenze economiche contingenti, che invero sembrano rappresentare la motivazione prevalente, se non esclusiva, di alcune ipotesi alternative emerse nel dibattito;
sembra, oltre tutto, di cattivo gusto per gli interroganti, e al di fuori delle competenze dei giudici contabili, insinuare dei dubbi sul corretto operato degli intermediari ed in particolare dei Caf, quando unicamente nell'1,67 per cento dei casi esaminati le scelte del contribuente non risultano trasmesse correttamente dal Caf;
ritenuto che:
"la Repubblica", nei suoi articoli, considera l'acquisizione dell'82 per cento delle risorse dell'8 per mille da parte della chiesa cattolica quale risultato degli spot pubblicitari della Cei, senza considerare che i contribuenti evidentemente si fidano più della chiesa che dello Stato sull'uso dei propri soldi;
in un articolo del 15 gennaio 2017 si legge: "La Chiesa cattolica, scatenata, le tenta tutte pur di fare il pieno di soldi con il meccanismo dell'8 per mille. E si affida soprattutto a campagne di spot in tv, che risultano "martellanti" ed efficacissime. Invece lo Stato italiano - che pure avrebbe bisogno di questo contributo, ad esempio per ristrutturare le scuole - non si impegna per convincere i contribuenti. La Corte dei conti, sorpresa dalla timidezza dei nostri governi, ha anche altri dubbi. Contesta allo Stato italiano di essere sleale quando impiega i soldi che riceve (quasi suo malgrado) dall'8 per mille",
si chiede di sapere:
se il Governo non ritenga opportuno attivare tutti i canali di mediazione, al fine di rimodulare i toni delle testate giornalistiche in merito a questioni e polemiche ad avviso degli interroganti infondate, tenuto conto che il meccanismo di elargizione dell'8 per mille è disciplinato per legge e non vi sono evidenze circa uno scorretto utilizzo da parte della Conferenza episcopale italiana;
se non ritenga opportuno attivare tutte le relazioni fra i poteri dello Stato, affinché i giudici contabili si limitino a relazionare le evidenze oggettive e i dati statistici, evitando giudizi di valore che esulano dalle competenze loro attribuite;
considerata ad avviso degli interroganti l'evidente incapacità dello Stato nel gestire le risorse dell'8 per mille e gli strumenti connessi, se non ritenga opportuno riformare il meccanismo piuttosto che accusare infondatamente altre istituzioni o organismi che hanno dato prova nel corso del tempo di riuscire a colmare e sostituire l'azione sociale pubblica, in molti casi inefficiente.
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