venerdì 22 agosto 2014

RIFORMA DELLA GIUSTIZIA: ECCO I NOSTRI PUNTI E LE NOSTRE RIFLESSIONI

L’obiettivo di politica criminale di un rinnovato centrodestra italiano dovrebbe consistere nel raggiungimento di due risultati apparentemente tra di loro incompatibili. Per un verso tracciare i lineamenti di un diritto penale liberale, per altro verso recuperare l’autorevolezza del potere punitivo dello Stato, soprattutto – ma non soltanto – con riferimento alla certezza della pena e all’efficienza complessiva della giustizia.
È ovvio che accanto a questi due macro - temi si collocano alcune delle più spinose questioni che da anni affliggono il mondo della giustizia in Italia. Tra le innumerevoli questioni basterà pensare al sovraffollamento carcerario, all’inefficienza della giustizia in ogni suo campo di manifestazione, ai tempi lunghi dei processi, al ritardo se non addirittura all’assenza di una tutela reale dei diritti anche costituzionalmente garantiti, al costo delle attività giudiziarie.
Rimandando ad un documento molto più dettagliato ed ampio rispetto all’attuale una generalizzata proposta di riforma della giustizia, sin da ora possono tuttavia evidenziarsi talune disfunzioni – attinenti sia alla razionalità complessiva del sistema che a talune specifiche discipline di settore – meritevoli di essere prontamente corrette.
In questa ottica si è dunque ritenuto opportuno articolare il presente documento in due distinte sezioni, concernenti quelle che potrebbero essere rispettivamente definite la parte generale e la parte speciale di un più ampio programma di riforma della giustizia. Talune osservazioni conclusive sono poi state riservate al delicato tema del processo civile.  

1.  PARTE GENERALE

DIRITTO E PROCESSO PENALE

La trattazione congiunta del diritto sostanziale e di quello processuale giova ad una migliore comprensione delle soluzioni proposte che un’analisi separata rischierebbe invece di compromettere. Ciò per l’evidente ragione che l’oggetto del processo penale è il reato rispetto al quale il primo si pone quale elemento intermedio tra il fatto – e le sue modalità di accertamento – e la pena, intesa quale conseguenza di un giudizio di responsabilità. È ovvio peraltro che i temi ai quali qui si farà brevissimo cenno confluiscono all’interno delle più gravi disfunzioni dell’intero sistema penale.

I

La questione di maggiore rilevanza del sistema penale è quella costituita dallaenorme quantità dei reati. Per come si è appena sottolineato, il tema si pone a cavallo tra il diritto e il processo penale, dal momento che la più evidente ragione giustificatrice dell’insuccesso di ogni soluzione processuale volta a incrementare l’efficienza del sistema e la celerità del processo è per l’appunto costituita dal continuo ricorso all’illecito penale quale generalizzato rimedio per contrastare ogni fenomeno di allarme sociale. La questione è estremamente complessa, dato che si lega alla necessità di un riordino del complessivo sistema penale (oltre che alla rivisitazione del diritto penale complementare, per come si vedrà meglio nel punto V, occorrerebbe pensare anche ad un nuovo codice penale, particolarmente urgente per la parte speciale, data la ben differenziata tavola dei valori oggi da tutelare, rispetto a quelli selezionati nel 1930), ma anche alla definizione dei suoi confini con l’illecito amministrativo punitivo e quindi alla mancata attuazione della legge n. 689/1981. Con il che si ribadisce l’esigenza di una seria depenalizzazione. A tale riguardo ci permettiamo di segnalare, quale possibile soluzione deflattiva alla poco meditata espansione legislativa del diritto penale, quella consistente nell’obbligo costituzionale di maggioranze qualificate per l’introduzione di nuove norme penali incriminatrici, in linea con quanto attualmente previsto dall’art. 79 Cost. per l’adozione dei provvedimenti di clemenza. Ovviamente, le modalità della procedura rafforzata andrebbero coordinate con riferimento alle modifiche costituzionali in corso di approvazione dinnanzi al Parlamento. 

II

Un tema di eccezionale rilevanza è poi quello costituito dalla necessità di rendere la pena detentiva una vera e propria extrema ratio, simmetricamente a quello che dovrebbe essere il ruolo del reato all’interno della più generale categoria dell’illecito. Ovviamente queste riflessioni possono valere soltanto per i reati di più ridotta gravità che, tuttavia, costituiscono una quota rilevante del carico penale, ma soprattutto di quello carcerario. Il problema qui segnalato è la diretta conseguenza della vetustà dell’attuale arsenale sanzionatorio che si regge prevalentemente su pene detentive, ossia su quelle che la politica criminale dei primi anni trenta poteva ragionevolmente ipotizzare. Oggi il sistema penale è in grado di prevedere sanzioni alternative punitive, interdittive o riparatorie, dotate di maggiore efficacia afflittiva e, ciononostante, non carcerarie. Questa soluzione avrebbe anche il vantaggio di ridurre l’estensione del processo di sorveglianza, affidandone una parte dei connessi poteri al giudice del processo di cognizione, con un evidente risparmio di tempi ed energie. Né può trascurarsi l’esigenza sistematica di evitare che in fase di esecuzione venga disfatto, con grave impegno di risorse – ma soprattutto con pregiudizio del principio di certezza della pena – il trattamento sanzionatorio deciso dal giudice di cognizione.

III

Una delle questioni che maggiormente incidono sull’emergenza carceraria è costituita dalla rinnovata rigidità della pena detentiva. Ciò con particolare riferimento ai limiti minimi edittali eccessivamente elevati e tali, quindi, da impedire al giudice di poterli ridurre in termini quantitativamente compatibili con la reale gravità del fatto e con i benefici connessi a pene che non superino una determinata soglia. Nella medesima direzione sopra descritta concorre anche il frequente ricorso del legislatore alle circostanze aggravanti, soprattutto a quelle cosiddette ad effetto speciale, nonché all’ulteriore misura costituita dal divieto di bilanciamento con eventuali circostanze attenuanti concorrenti. Né, in un panorama così delineato, può sottovalutarsi l’eccessiva ampiezza (genericità, natura perpetua e casi di divieto di bilanciamento) dell’istituto della  recidiva, come anche del campo di riduzione delle circostanze attenuanti generiche.

IV

Andrebbe poi vietato il ricorso ai decreti legge in materia penale. In particolare con riferimento al rischio di ferite non riparabili al diritto di libertà personale, in conseguenza di casi di decreto legge introduttivo di disposizioni penali sfavorevoli, non convertito o convertito con modificazioni.

V

Un ulteriore problema è costituito dalla enorme e disordinata estensione del diritto penale complementare. Questo imponente settore è frequentemente caratterizzato dalla presenza di fattispecie bagatellari che tuttavia, a causa della loro estrema diffusione quantitativa, generano gravi intralci per l’intero sistema penale. Il settore è poi contrassegnato dalla frequente mancanza di testi unici, da scarsa coerenza degli indirizzi legislativi di fondo, da una estrema lontananza rispetto ai principi contenuti nel codice penale, ma anche nella nostra Costituzione, oltre che da testi legislativi che registrano un ulteriore abbassamento del già insufficiente livello tecnico che spesso di per sé ne contrassegna la redazione. La situazione che ci siamo permessi di descrivere ingenera diseconomie e disfunzioni che solo un’attenta politica di riordino delle leggi, o meglio di redazione di testi unici finalmente organici, potrebbe eliminare, anche nel tentativo di riaffermare la centralità del codice e dei principi costituzionali ai quali andrebbe assoggettato ogni settore del diritto penale. Non a caso, taluni dei più recenti progetti di riforma del codice penale hanno espressamente previsto una “riserva di codice”, al duplice scopo di fare del codice il centro del sistema penale e di ridurre correlativamente il peso ormai insostenibile della legislazione complementare, le cui dimensioni abnormi e disorganiche alimentano pure una crescente decodificazione. Peraltro, è evidente che l’espressione riserva di codice deve qui intendersi non certo nel limitato senso di una diversadislocazione delle fattispecie, bensì in quello – ben più pregnante – di una loro diversa strutturazione, finalmente rispettosa dei basilari principi codicistici di previsione dei tipi criminosi. 

VI

Quello della prescrizione del reato costituisce un tema di natura squisitamente politica, nel senso che qui il diritto deve limitarsi a registrare una modalità di soluzione che la politica deve avere ancor prima messo a punto. Infatti la durata del rapporto punitivo tra Stato e cittadino è un tema che caratterizza il tasso di liberalità di un sistema politico, risultando del tutto incompatibile con uno Stato liberale, ovvero con uno Stato democratico, l’idea di un rapporto punitivo che perduri illimitatamente nel tempo.
Premessa la criticabilità delle concezioni di tipo assoluto in materia di funzioni della pena (cfr. I. Kant), si deve notare come la nostra intera legislazione dimostri l’ampia e reiterata relativizzazione della sanzione criminale. Basti pensare alla materia dei condoni, agli sconti sanzionatori per i collaboratori di giustizia, agli effetti connessi alle condotte successive di natura riparatoria e alle riduzioni di pena per il giudizio abbreviato e per il cd. patteggiamento.    
Né può negarsi la perfetta compatibilità dell’attuale disciplina della prescrizione con una serie di principi costituzionali. Infatti, la prescrizione assicura la ragionevole durata del processo che, in sua assenza, verrebbe celebrato in tempi indeterminabili (art. 111 comma 2 Cost.). C’è pure da osservare che in un sistema ad azione penale costituzionalmente obbligatoria la prescrizione svolge anche la surrettizia ma non trascurabile funzione di assicurare un autocontenimento quantitativo del sistema.
La prescrizione garantisce il diritto di difendersi provando, dal momento che assicurando la celebrazione del giudizio in prossimità temporale con la commissione del fatto, rende possibile all’imputato la ricerca delle prove difensive che altrimenti gli verrebbero sottratte se il giudizio fosse celebrato ad eccessiva distanza temporale dal fatto (art. 111 comma 3 Cost.).
La prescrizione garantisce il principio di rieducazione, dal momento che fa sì che la condanna riguardi un soggetto il più possibile simile a quello che ha commesso il fatto e che pertanto può riconoscere la pena come capace di instaurare un vero e proprio processo rieducativo. Sarebbe infatti priva di ogni effetto rieducativo, semmai fortemente criminogena, una pena che dovesse intervenire allorquando l’autore del fatto si fosse socialmente reinserito, ad esempio avesse costituito una famiglia, trovato una regolare attività lavorativa e addirittura mutato stile di vita (art. 27 comma 3 Cost.).
La prescrizione asseconda il principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza, dal momento che l’affermazione secondo la quale essa consente la non punibilità dei colpevoli, sconta la fondata obiezione secondo la quale si è colpevoli soltanto in presenza di una condanna passata in autorità di cosa giudicata (art. 27 comma 2 Cost.).
Pertanto, ogni futura revisione del regime della prescrizione dovrà tenere conto del fatto che l’idea di commisurarla in termini quantitativamente eccessivi, non soltanto presuppone una concezione illiberale e autoritaria dello Stato, che tratterebbe i propri cittadini come sudditi, per tutta la loro vita o per suoi amplissimi intervalli, ma confliggerebbe anche con i summenzionati principi costituzionali.
Se mai si dovesse decidere, nel tentativo di modificare l’attuale sistema, di far cessare il computo della prescrizione del reato in riferimento a determinate tappe processuali (ad esempio, ordinanza di rinvio a giudizio o sentenza pronunciata in primo grado), sarebbe indispensabile prevedere poi un sistema di processo breve. Ossia termini perentori regolativi dei tempi di celebrazione della fase successiva, facendo così interagire la durata della prescrizione del reato con quella della prescrizione del processo, nonché un termine complessivo di prescrizione che, entro un termine massimo che assommi la durata della prescrizione del reato e di quella del processo, vieti che quest’ultimo possa durare in maniera tale da vanificare il senso “politico” della prescrizione. Ciò in quanto, decorso un ragionevole periodo di tempo, non ha più senso pretendere la punizione del cittadino. 
Vi è poi da osservare che un sistema siffatto dovrebbe implicare che molti termini regolativi dell’attività del pubblico ministero, nonché del giudice nelle fasi successive, da ordinatori – per come sono attualmente –  diventino perentori. Sarebbe infatti arbitrario addebitare al cittadino, sul versante della riduzione dei casi di prescrizione del reato, quei tempi processuali liberamente rimessi al pubblico ministero o al giudice, nel senso che questi ultimi possono compiere le sopra menzionate attività quando lo ritengono, senza che dal ritardo derivi alcuna decadenza o preclusione.

VII

La gravità dei problemi connessi alla gestione del carico giudiziario impone di prendere in considerazione anche il problema costituito dalla obbligatorietà nell’esercizio dell’azione penale. Premesso che l’art. 112 Cost. costituisce una diretta conseguenza del principio di eguaglianza che ne ha giustificato la conservazione, sarebbe tuttavia superficiale non considerare la necessità di rivalutarne il mantenimento alla luce del mutato clima politico e della fiducia che si può riporre nell’uso di un simile potere discrezionale, opportunamente controllato da parte della magistratura italiana. La necessità di riflettere sull’argomento non nasce soltanto da ragioni di tipo comparativo, ma soprattutto dalla  già constatata invadenza di un diritto penale alluvionale e per molti versi bagatellare che un filtro a monte potrebbe contribuire a ridurre.

VIII

Venendo agli aspetti più spiccatamente processuali, e in particolare al gravissimo problema della eccessiva durata del giudizio, sarebbe necessaria una indagine conoscitiva volta ad accertare quale è l’incidenza, sulla durata complessiva del processo, dei cd. tempi morti, ossia della mera permanenza nelle segreterie o nelle cancellerie, rispetto ai tempi invece dedicati alla sua trattazione nelle diverse fasi. Ciò consentirebbe finalmente di comprendere quali sono le reali ragioni dei ritardi e i necessari rimedi da apprestare. Al riguardo, un aspetto da non sottovalutare è costituito dai tempi spesi per le notificazioni. Premessa l’esigenza di informare realmente le parti processuali di quanto accade, l’uso delle risorse telematiche potrebbe soddisfare questa insopprimibile esigenza, coniugandola con quella non contrapposta della celerità.
Le considerazioni appena formulate determinerebbero una notevole accelerazione del processo, che potrebbe tra l’altro giovarsi di una generalizzata partecipazione a distanza di tutti i detenuti.

IX

La custodia cautelare in carcere costituisce uno dei temi più complessi e difficili, ma anche quello più dotato di una diretta incidenza sul grave fenomeno del sovraffollamento carcerario. È superfluo ricordare il principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza e purtroppo il suo molto limitato effetto sul fenomeno sopra denunciato.
Del pari, è inutile ribadire le sollecitazioni rivolte al nostro Paese dalla Corte Edu con la nota sentenza Torreggiani (sez. II, 8 gennaio 2013), la quale ha imposto allo Stato italiano di introdurre «un ricorso o una combinazione di ricorsi che abbiano effetti preventivi e compensativi e garantiscano realmente una riparazione effettiva delle violazioni della Convenzione risultanti dal sovraffollamento carcerario» (§ 99).
A prescindere dalle tante riflessioni critiche che occorrerebbe formulare in relazione alle attuali disfunzioni del nostro sistema penitenziario, ma anche alla inadeguatezza degli strumenti di tutela del detenuto, si potrebbe intanto pensare di invertire il rapporto tra custodia cautelare e arresti domiciliari. Nel senso di configurarli come la soluzione di ordine generale (magari arricchendoli di ulteriori strumenti di controllo) da apprestare per le misure coercitive personali. Con ciò si riserverebbe il ricorso alla custodia cautelare in carcere ai casi di una motivazione che sia in grado di dimostrare la necessità di bilanciare le esigenze cautelari mediante il ricorso alla meno afflittiva risorsa delle detenzione domiciliare. Ovviamente il sistema dovrebbe pure giovarsi dell’attuale limitazione della presunzione di esigenze cautelari, limitatamente ai delitti di cui agli artt. 270, 270-bis e 416-bis c.p.
Un’ulteriore, ma ragionevole riduzione della custodia cautelare in carcere potrebbe conseguire all’introduzione del requisito dell’attualità all’interno delle lettere b) e c) dell’art. 274 c.p.p. Analogamente potrebbe vietarsi al giudice di desumere il pericolo di fuga, ovvero di reiterazione, dalla semplice gravità edittale del reato. 

X

La materia delle intercettazioni telefoniche, ambientali e telematiche, è complessa e conflittuale. Un problema preliminare è costituito dallaprematura divulgazione dei testi delle intercettazioni. La questione non può ritenersi banale, non soltanto per i gravi reati arrecati alla sfera personale e intima anche di soggetti estranei alle indagini, ma pure per il vizio genetico che contrassegna simili elementi di prova in una fase talmente immatura da non avere nemmeno consentito ai soggetti interessati di fornire alcuna spiegazione sul significato delle conversazioni. In altri termini, se l’art. 111 Cost. stabilisce che la prova si forma nel contraddittorio, appare poi irrazionale che vengano divulgati elementi probatori di tipo unilaterale e non verificati e che per di più su questi si formi la pubblica opinione. La norma strategica al riguardo, quella che sembra avere consentito in questi anni la divulgazione dei testi in questione, è l’art. 329 c.p.p. nella parte in cui stabilisce che la cessazione del segreto tra le parti comporta la caduta del segreto anche all’esterno. Disposizione, questa, che in un futuro modificato assetto della materia andrebbe forse rimeditata, congiuntamente al ruolo della cd. udienza stralcio, che andrebbe imposta anche al fine di evitare le pubblicazioni del tutto estranee rispetto ai fatti di reato perseguiti. Le direttrici di una riforma potrebbero poi consistere nelle seguenti iniziative:
1. prevedere un elenco tassativo di reati;
2. limitare le intercettazioni tra presenti ai casi di un’attività criminosa in corso;
3. consentire le operazioni di intercettazione soltanto sulla base di esigenze relative al processo in corso.


2. PARTE SPECIALE

AUTORICICLAGGIO, FALSE COMUNICAZIONI SOCIALI, IMMIGRAZIONE CLANDESTINA, MISURE DI PREVENZIONE PERSONALI, SEPARAZIONE DELLE CARRIERE, RESPONSABILITà CIVILE DEL MAGISTRATO, MAGISTRATI FUORI RUOLO. 

I

La proposta del Governo in materia di autoriciclaggio coincide con il testo unificato presentato in Commissione Giustizia sull’unico punto davvero qualificante della norma in questione, ossia quale debba essere la condotta costitutiva dell’autoriciclaggio.
La soluzione concordemente individuata consiste nel punire la condotta che si risolva nell’impiego dei proventi di delitti non colposi, a condizione che ciò avvenga in contesti economici, finanziari o speculativi.
A ciò si deve premettere che non è possibile risolvere il delicato problema in questione mediante la semplice eliminazione della clausola che attualmente vieta l’autoriciclaggio. Clausola consistente nell’impedire che del delitto di riciclaggio (delitto “a valle”) possa rispondere colui il quale abbia commesso il delitto “a monte” (qualsiasi delitto non colposo), dato che ciò comporterebbe la incriminazione di condotte che consistono nel mero utilizzo o godimento del provento illecito.
Per addurre una banale ma persuasiva esemplificazione sul punto, diversamente ragionando commetterebbe dieci autoriciclaggi, oltre che il delitto “a monte” costituito da una ipotesi di furto, colui il quale essendosi impossessato, previa sottrazione, di cento euro appartenenti ad altri, con questa somma avesse poi acquistato dieci panini del valore di dieci euro ciascuno.
Per come è facile notare, una simile soluzione determinerebbe risultati manifestamente ingiusti, anche sul piano degli eccessi punitivi cui si giungerebbe (si pensi al rigore delle pene previste per l’autoriciclaggio e alla sproporzione sanzionatoria tra questo delitto e la maggior parte dei delitti “a monte”, frequentemente puniti con minore severità).
In aggiunta si deve pensare anche alla inammissibile estensione della incriminazione che ne deriverebbe, dato che quest’ultima verrebbe prevalentemente indirizzata verso fasce di criminalità medio-basse, con effetti negativi, già da subito prevedibili, sull’emergenza carceraria. Basterà pensare alla diffusione dei delitti di furto, ancorché quella dei reati contro il patrimonio non costituisca di certo l’unica categoria dei delitti “a monte”.
La soluzione alternativa sarebbe potuta consistere nel prevedere un delimitato catalogo di delitti “a monte” ai quali soltanto sarebbe potuto conseguire il delitto di autoriciclaggio. Soluzione, questa, che ciononostante si sarebbe esposta alle seguenti critiche:
1.     criteri di redazione e completezza del catalogo dei delitti “a monte”;
2.     necessità di un aggiornamento del catalogo stesso in relazione ad eventuali innovazioni legislative.
Vi è infine da osservare che, tra le condotte attualmente prevedute per il delitto di riciclaggio, quella consistente nel compimento di operazioni tali da ostacolare la provenienza delle somme di denaro o di altre utilità, non sembra compatibile con l’impianto di base della norma.
Ciò perché non può essere fatta rientrare all’interno del concetto di “impiego” del provento in attività economiche, finanziarie o speculative e pertanto risulta eterogenea rispetto alla condotta punibile.

II

In materia di false comunicazioni sociali, si deve premettere la necessità politico-criminale di disporre di una norma penale incriminatrice dotata di un maggiore ambito di applicazione rispetto a quelle attualmente vigenti.
Le ragioni politico-criminali che sottostanno ad una simile affermazione si fondano sulla necessità di tutelare l’economia nazionale sana dalle aggressioni di speculatori, ponendo al riparo dagli effetti connessi alla false comunicazioni sociali i risparmiatori, i dipendenti delle stesse società, tutti coloro i quali operano con queste ultime e, di conseguenza, la stessa economia nazionale che certo non può ritenersi beneficiata da simili condotte illecite.
A tale riguardo, premesso il collegamento dei reati in questione con i delitti di falso preveduti dal codice penale, non sembra in alcun modo giustificata la differenziazione in delitto e contravvenzione, la procedibilità a querela per il primo, l’uso in vincolo di contestualità, ancorché con oggetti differenziati, del dolo intenzionale e del dolo specifico, delle soglie di punibilità, nonché di elementi elastici di fattispecie funzionali alla non punibilità (si pensi al tema delle “variazioni sensibili”).  
Vero e proprio complesso di limiti alla operatività delle disposizioni in questione, tali da renderle non operative.
Sul punto si deve notare come la Corte costituzionale (sent. n. 161 del 2004), malgrado abbia salvato, sul piano della legittimità costituzionale, gli attuali testi degli artt. 2621 e 2622 c.c., sul presupposto della non sindacabilità delle scelte politico-criminali del legislatore, abbia ciononostante duramente criticato queste stesse scelte. 
Si riportano di seguito le uniche limitazioni che in tema di false comunicazioni sociali possono immaginarsi:
1.     l’introduzione del principio della “idoneità ad ingannare” della falsa comunicazione sociale;
2.     la circostanza che le comunicazioni sociali punibili sono quelle prevedute per legge;
3.     la procedibilità a querela soltanto nei ben limitati casi preveduti dal secondo comma dell’art. 1 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267, concernente gli imprenditori che non possono essere sottoposti a fallimento o a concordato preventivo;
4.     la non punibilità delle cd. valutazioni estimative.

III

Vi è anche da segnalare la necessità di un riordino della materia dellaimmigrazione clandestina che sappia trovare un punto di equilibrio tra le opposte esigenze di vietare ingressi indiscriminati di soggetti pericolosi nel territorio nazionale, e di fornire ospitalità e protezione ai profughi e in generale di tutelare i beni fondamentali della incolumità e della vita. 

IV

Le misure di prevenzione personali potrebbero costituire un utile strumento nella direzione di incrementare efficacemente il controllo sociale e quindi di prevenire la commissione dei reati, con ciò determinando pure una riduzione del processo penale tout court. A vantaggio del ricorso a simili iniziative concorre pure la diversa grammatica probatoria che le caratterizza rispetto al processo ordinario, la maggiore speditezza del rito e, soprattutto, la funzione per l’appunto consistente nel prevenire i reati. Non può nemmeno sottovalutarsi l’utilità che gli organi di polizia e la magistratura possono trarre dalla disponibilità di una sorta di estesa mappa del disordine e della disfunzione sociale in vista del raggiungimento di obiettivi di grande rilevanza, come la neutralizzazione dei reati.

V

La separazione delle carriere è già di fatto prevista dall’art. 111 comma 2 Cost., là dove dispone che le parti compaiano davanti ad un giudice terzo e imparziale rispetto ad esse, con ciò nettamente staccando quest’ultima figura da quella del pubblico ministero. Ovviamente nessuno pensa che la figura del pubblico ministero, separata da quella del giudice, possa essere assoggettata ad alcun controllo politico. Per respingere un simile rischio è infatti sufficiente estendere al pubblico ministero le garanzie di autonomia e indipendenza già costituzionalmente previste per il giudice. A questo punto, però, sarebbe assicurato il valore fondamentale del giudizio, ossia quello consistente nella indipendenza del giudice anche rispetto al pubblico ministero.
Sul punto, ci si riporta integralmente al disegno di legge di iniziativa popolare (art. 71 comma 2 Cost.) che il Nuovo Centro Destra ha recentemente depositato.

VI

La legge sulla responsabilità civile del magistrato costituisce uno snodo tanto necessario e non rinviabile quanto problematico dal punto di vista tecnico. I punti critici dell’attuale regolamentazione legislativa sono da tempo noti, così come ampiamente noti sono i punti più qualificanti della futura riforma, come qui di seguito riportati:
1.     è del tutto condivisibile la scelta di una responsabilità indiretta dei magistrati;
2.     è pure da condividersi il presupposto di questa responsabilità civile, individuato nella c.d. colpa grave. Ciò è in linea con l’art. 2236 c.c. che impone questa forma di colpa tutte le volte in cui si tratta di attività particolarmente complesse, le quali implicano la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà. L’istituto si è recentemente trasferito al diritto penale con riferimento alla responsabilità del medico il quale, nell’esercizio della sua attività professionale, si sia ispirato a protocolli diagnostico-terapeutici convalidati dalla comunità scientifica (c.d. linee guida), ovvero alle buone pratiche dell’arte medica (cfr. art. 3 d.l. 13 settembre 2012 n. 158, convertito con modificazioni nella legge 8 novembre 2012, n. 189).
3.     Tuttavia non si comprende per quale ragione l’art. 2 della vigente legge Jervolino - Vassalli, nell’indicare quali condotte costituiscano colpa grave, limiti quest’ultima ai casi di negligenza inescusabile, con riferimento alle lettere a), b) e c). Con ciò, il legislatore, non soltanto ha condivisibilmente scelto un parametro ristretto, ma poi lo ha ulteriormente limitato al solo caso di colpa per negligenza e per giunta esclusivamente ai casi in cui questa negligenza abbia assunto i contorni, ancor più riduttivi, della negligenza inescusabile. Con ciò il legislatore ha pure escluso dall’alveo della responsabilità per colpa grave i casi di imperizia, tradizionalmente tipici delle ipotesi colpose che caratterizzano i contesti di natura tecnica, o governati dal necessario rispetto di particolari disposizioni (tutti i casi di cui all’art. 2236 c.c. sono ritenuti dalla giurisprudenza caratterizzati da colpa per imperizia) e comunque particolarmente propri della violazione di legge, rispetto alla quale la condotta inescusabilmente negligente appare davvero difficilmente ipotizzabile. Sul punto giova ricordare che la negligenza è disattenzione, scarsa considerazione degli interessi altrui e, in via del tutto esemplificativa, può riconoscersi nei confronti di un soggetto che, titolare di un obbligo di protezione di interessi altrui, ometta per dimenticanza di attivare un dispositivo di sicurezza dotato di efficacia cautelare/preventiva.
4.     Per le ragioni di cui al punto precedente meglio sarebbe, in linea con l’art. 2236 c.c., limitarsi a prevedere la colpa grave, lasciando poi al giudice il compito di qualificarla come colpa per negligenza, imperizia o imprudenza (quest’ultima difficilmente ipotizzabile, dal momento che consiste nel superamento di un limite cautelare).
5.     L’errore inescusabile, sia di fatto che di diritto, non la negligenza inescusabile, potrebbe al contrario essere utilizzato quale parametro per individuare i casi di rivalsa obbligatoria dello Stato nei confronti del magistrato. L’entità della rivalsa, sia nei termini di percentuale rispetto al danno, sia nei termini della frazione che deve scaricarsi sullo stipendio mensile del magistrato, costituisce un tema sul quale si può essere disposti ad ogni soluzione, comprese quelle più favorevoli per i magistrati. Infatti non è tanto rilevante l’aspetto economico inteso in termini quantitativi, quanto il principio di cultura democratica secondo il quale si deve ammettere la responsabilità civile di chiunque abbia cagionato ad altri un danno per dolo o colpa grave,  indipendentemente dal ruolo e dalle alte funzioni che riveste ed esercita (d’altronde, come già previsto dall’art. 28 Cost.).     
6.     Sul punto, non soltanto allo scopo di limitare la responsabilità civile dei magistrati, ma al fine di indicare un parametro davvero effettivo in tal senso, è opportuno aggiungere alle lettere a), b) e c) del comma 3 dell’art. 2 della legge n. 117/1988, in luogo del parametro della “negligenza inescusabile”, l’espressione “purché rilevante ai fini dell’atto, del provvedimento o della sentenza”. Con ciò si vuol sottolineare che la responsabilità civile del giudice non sorge in tutte le ipotesi di errore di diritto o di fatto del pubblico ministero o giudice, ma solo allorquando questo errore sia risultato rilevante ai fini della iniziativa o della decisione adottata. Escludendo così, già sul piano legislativo, tutti quegli errori che siano risultati irrilevanti rispetto alla decisione assunta.   
7.     Vi è poi da notare che parlare di “grave violazione di legge” (lett. a, comma 3, art. 2, della legge n. 117/1988) comporta qualche problema di natura dogmatica, dato che la violazione di legge non dovrebbe implicare alcuna graduazione al suo interno. Tuttavia il gradualismo è nei fatti e i parametri di cui al comma 3-bis del progetto di riforma possono costituire una utile base per la sua verifica. Si deve però principalmente osservare che il parametro della gravità della violazione di legge svolge la funzione particolarmente utile di separare la violazione di legge come generativa di un vizio di legittimità di competenza della Corte di cassazione dalla grave violazione di legge generativa della responsabilità civile dei magistrati, separando così le due vicende.
8.     Vi è infine da notare che tra i parametri funzionali a valutare l’esistenza di una colpa grave andrebbe incluso anche quello costituito dall’essersi il giudice discostato, senza fornire adeguata motivazione sul punto, dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione. A questa precisazione va premesso che una simile forma  di responsabilità civile è già ampiamente diffusa nella giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, vincolante come norma interposta sulla base delle sentenze “gemelle” della Corte costituzionale n. 348 e n. 349 del 2007, oltreché in quella disciplinare del C.S.M.
Sarebbe pertanto asimmetrico non prevedere un’analoga disposizione per quanto riguarda una giurisprudenza interna particolarmente qualificata come quella delle Sezioni Unite della Corte di cassazione. Quanto, poi, alla prevedibile obiezione secondo la quale, così facendo, si muterebbe il volto del nostro sistema processuale, affermando per la prima volta la natura vincolante del precedente giurisprudenziale, vi è da obiettare che così non sarebbe. Ciò in quanto al giudice è fatto soltanto obbligo di motivare la sua opinione dissenziente, con ciò liberandosi dall’inesistente obbligo di conformarsi alla giurisprudenza delle Sezioni Unite. Compito, questo, non soltanto doveroso, visto il generale obbligo di motivare, ma anche culturalmente qualificante e semmai stimolante di una evoluzione giurisprudenziale anche modificativa della stessa giurisprudenza delle Sezioni Unite. D’altronde, nessuno comprende quale sia la portata di simili qualificanti precedenti giurisprudenziali, se poi al giudice che dissente non si fa obbligo di spiegare le ragioni del proprio contrario convincimento. Sul punto occorre infine aggiungere che la progressiva erosione del principio di legalità, a tutto vantaggio della interpretazione del giudice (sul punto vi veda Cass., Sez. Un., ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale depositata in data 10 settembre 2012, ric. Ercolano, nonché Corte cost., sent. n. 210 del 2013) e, quindi, la sottrazione di quote del monopolio del potere legislativo quanto alla formazione delle leggi, rende urgente, non soltanto la eliminazione dell’attuale condizione di irresponsabilità civile (di fatto) dell’ordine giudiziario, ma anche la valorizzazione dei precedenti giurisprudenziali qualificati, non risultando pensabile, nel contesto sopra delineato, che il magistrato non sia nemmeno obbligato a motivare il dissenso.
Su di un piano più generale, poi, è del tutto evidente che la legislazione in materia non può certo segnare una così vistosa eccezione ai principi costituzionali della parità di trattamento di tutti i cittadini dinnanzi alla legge (art. 3) e della responsabilità dei funzionari e dei dipendenti dello Stato per gli atti compiuti in violazione dei diritti (art. 28).
Se, infatti, possono comprendersi le ragioni di una disciplina differenziata per i magistrati, vi è comunque un limite elastico che non può mai essere superato, per come evidenzia lo stesso principio costituzionale secondo il quale “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101 comma 2).
D’altronde, un ordine giudiziario non eletto, di fatto sottratto ad ogni forma di responsabilità civile per l’esercizio delle proprie funzioni, dotato delle prerogative di cui all’art. 104 Cost., rappresenta un elemento fortemente dissonante anche in un quadro costituzionale di ulteriore ridimensionamento del potere politico.
Conclusivamente, anche al fine di tutelare una categoria di funzionari dello Stato già di per sé costituzionalmente protetta (cfr. l’appena citato art. 104), si propone di disallineare i casi di responsabilità civile dello Stato per responsabilità del magistrato dai casi in cui lo Stato è obbligato a rivalersi nei confronti del medesimo magistrato, rendendo questi ultimi più stringenti e selettivi rispetto ai primi.
In questo senso acquisirebbe un rilievo del tutto centrale la inescusabilità dell’errore che potrebbe funzionare come categoria evocativa delle vicende nelle quali lo Stato è tenuto a rivalersi nei confronti del singolo magistrato, nel contesto di un sistema informato ad una logica di responsabilità indirettache richiama la categoria civilistica della cd. culpa in eligendo.          

VII

Al fine di recuperare una maggiore efficienza del sistema non si può eludere il problema dei magistrati “fuori ruolo”, per come addirittura anche autorevolmente segnalato di recente dal Consiglio superiore della Magistratura. 

3.     PROCESSO CIVILE

Nell’ultimo quinquennio il processo civile è stato interessato da molteplici riforme, tutte accomunate dall’oramai fin troppo noto obiettivo di rendere efficiente e competitivo il sistema, mediante strumenti e tecniche volti, da un lato a favorire la rapida conclusione dei processi, dall’altro a deflazionare quanto più possibile il contenzioso. Ne sono un esempio lampante:
1.     la l. 19 giugno 2009, n. 69, che modifica sensibilmente il processo civile nella direzione della ragionevole durata (si pensi all’introduzione del rito sommario di cognizione come modello ordinario per la decisione delle cause ad istruttoria semplificata, alle modifiche delle norme sulla regolamentazione delle spese di lite, al rafforzamento dei poteri sanzionatori del giudice per chi, a vario titolo, “rallenti” la durata fisiologica del procedimento e così via);
2.     il d.lgs. 3 marzo 2010, n. 28 che, attuando la delega contenuta nella predetta l. n. 69/2009, ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto dellamedia-conciliazione per le controversie civili e commerciali, prevedendone l’obbligatorietà in talune materie;
3.     il d.l. 22 giugno 2012, n. 83 (cd. decreto crescita) conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134 che, modificando incisivamente il regime delle impugnazioni civili, sia di merito che di legittimità, ha previsto, fra l’altro, il c.d. filtro di inammissibilità del giudizio di appello, fondato su una prognosi di non ragionevole fondatezza del gravame.
4.     A completare il percorso intrapreso, il legislatore è intervenuto da ultimo con il d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (cd. decreto del fare), convertito, con modificazioni, in l. 9 agosto 2013, n. 98. Tale decreto, insieme a disposizioni urgenti finalizzate al rilancio dell’economia, contiene importanti norme di carattere organizzativo per la giustizia civile, con l’evidente intento di favorire la celere definizione dei procedimenti pendenti (si pensi alla figura del “giudice ausiliario” in Corte d’appello o del “magistrato assistente” di studio a supporto delle sezioni civili della Corte di cassazione). Inoltre, in un’ottica chiaramente deflattiva, ripristina la mediazione obbligatoria in determinate materie, dopo la dichiarazione di incostituzionalità, per eccesso di delega, del d.lgs. n. 28/2010, nella parte in cui prevedeva il carattere obbligatorio della mediazione. L’intento di semplificare il processo civile per rendere la giustizia un servizio più fruibile si è anche concretizzato mediante il cd. processo telematico il cui avvio è stato attuato nel tempo attraverso vari interventi legislativi e non si è ancora completato. La l. 24 dicembre 2012 n. 228 ha infatti introdotto l’obbligo per gli avvocati di invio telematico degli atti processuali e dei documenti ai tribunali.
Alla luce del quadro sopra succintamente tratteggiato si evince come il processo civile non soffra certo di carenze di riforme. Non a caso, quando si compie un’analisi seria dei problemi che affliggono la giustizia civile, il dito viene puntato non tanto sulla mancanza di modelli processuali idonei a far fronte alla domanda di giustizia che nel nostro Paese è molto alta (a causa dell’elevato livello di litigiosità), quanto sulla carenza di risorse finanziarie e umane adeguate a sostenere e accompagnare le numerosissime riforme che si sono susseguite nel tempo. Proprio a causa di questa lacuna che nessun intervento legislativo sino ad ora è riuscito a colmare, continua ad esserci una sproporzione tra il flusso dei procedimenti in entrata e quello dei procedimenti esauriti, con un arretrato che ammonta a circa 4 milioni di processi pendenti nei vari gradi di giudizio.

Secondo l’ultimo rapporto OCSE l’Italia, infatti, continua a mantenere il record negativo della durata dei processi (tre gradi di giudizio durano in media 8 anni). Per porre rimedio a questa situazione occorre certamente puntare, sia sulla incentivazione degli strumenti di risoluzione delle controversie alternativi alla giurisdizione (come la mediazione), sia su un funzionamento più efficiente e competitivo della macchina giudiziaria, promuovendo la piena attuazione del processo telematico, come strumento privilegiato per dimezzare i tempi del processo. Sotto quest’ultimo punto di vista occorre peraltro riconoscere che la fruttuosa informatizzazione del processo civile implica necessariamente la previsione di misure che garantiscano un’adeguata formazione degli operatori della giustizia(giudici, avvocati e soprattutto cancellieri) chiamati a confrontarsi con i nuovi strumenti tecnologici, in assenza della quale il risultato potrebbe essere ancora una volta quello della inefficienza.

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