In
un nuovo libro, il giurista Giovanni Fiandaca e lo storico Salvatore
Lupo, mettono in dubbio i fondamenti giuridici e storico-politici del
processo di Palermo: il presunto patto occulto tra lo Stato e Cosa
nostra era una necessità per far cessare le stragi. Fiandaca accusa
i pm di un “pregiudiziale atteggiamento criminalizzatore”.
Scrive
Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera:
(…)
Secondo i pm di Palermo durante la stagione degli attentati del ‘92
e del ‘93 si sarebbe instaurata una trattativa tra la mafia e lo
Stato italiano nella quale l’organizzazione avrebbe sottoposto
attraverso il famoso «papello», una serie di richieste tra cui
l’abolizione del carcere duro per i boss.
Lo
storico la mette così: nella primavera del 1992, dopo l’omicidio
Lima e la strage di Capaci, lo Stato era sotto scacco e la mafia
procedeva dritta sulla strada del terrorismo. In quel drammatico
momento, all’interno delle istituzioni «qualcuno può avere
avviato, più o meno autonomamente, trattative con la leadership
dell’organizzazione mafiosa, o con qualche sua fazione, o qualche
suo satellite… Il reato di trattativa non esiste, e per fortuna».
Niente di strano, insomma.
Il
giurista ritiene che di fronte a una simile emergenza si possa
invocare addirittura lo «stato di necessità», che giustificherebbe
«eventuali interventi o decisioni extralegem del potere esecutivo»;
fermo restando il bilanciamento costi-benefici, «la scelta
politico-governativa di fare concessioni ai mafiosi in cambio della
cessazione delle stragi risulterebbe legittima perché legittimata,
appunto, dalla presenza di una situazione necessitante che impone
agli organi pubblici di proteggere la vita dei cittadini».
Farà
discutere il doppio saggio che Salvatore Lupo (lo storico) e Giovanni
Fiandaca (il giurista) hanno scritto per gli Editori Laterza,
significativamente intitolato La mafia non ha vinto – Il labirinto
della trattativa , (pagg. 154, euro 12,00). Perché al netto delle
digressioni accademiche, dei tanti distinguo e dei dubbi tra cui gli
stessi autori si muovono per arrivare alle proprie conclusioni, la
tesi del libro è che il processo in corso a Palermo sul presunto
«patto occulto» tra lo Stato e Cosa nostra non sta in piedi. È
sbagliato sul piano giuridico e per la visione storico-politica da
cui prende le mosse. Una tesi netta, argomentata con analisi
approfondite naturalmente suscettibili di obiezioni (qualcuna non
infondata), destinata a provocare ulteriori polemiche intorno al
dibattimento che vede alla sbarra — uno di fianco all’altro,
accusati di essere autori e complici del ricatto mafioso — boss del
calibro Riina, Brusca e Bagarella, ex carabinieri come i generali
Mori e Subranni ed ex esponenti politici come Mannino e Dell’Utri,
(più l’ex ministro Mancino imputato di falsa testimonianza).
Frutto di un’inchiesta che ha provocato divisioni e conflitti,
anche istituzionali, senza precedenti. Ci sarà chi accuserà gli
autori di delegittimare la magistratura, e chi li utilizzerà per
delegittimarla (com’è successo per un altro saggio del professor
Fiandaca sul medesimo argomento), mentre sarebbe bene leggere il
libro «laicamente», e dibatterne senza pregiudizi né
strumentalizzazioni, da una parte o dall’altra.
Non
sarà facile, anche perché è Fiandaca ad accusare gli inquirenti
palermitani di un «pregiudiziale atteggiamento criminalizzatore»
ispirato da «una sorta di avversione morale» verso «ipotesi
trattattivistiche» che sono prerogativa del potere esecutivo, senza
necessità di un previo assenso dell’autorità giudiziaria. Vero è
che «interessi tutt’altro che nobili e aspetti di forte ambiguità
hanno contribuito a rendere poco chiaro e poco trasparente lo
scenario di allora», ma resta la domanda di fondo: «Ciò è
sufficiente per escludere la possibile liceità di concessioni a Cosa
nostra, trasformando negoziatori istituzionali operanti a fin di bene
in una banda di delinquenti in combutta con la mafia?».
La
risposta del giurista è no. Anche perché — sostiene — ammesso
che la mancata proroga di oltre 300 decreti di «carcere duro» per
altrettanti detenuti «non di primaria grandezza» fosse una
concessione a Cosa nostra per evitare nuove stragi (l’unica
concreta, nei fatti), fu comunque un atto «di discrezionalità
politica» dell’allora Guardasigilli Conso, «insindacabile
penalmente». Sia che il ministro l’abbia assunta «in piena
solitudine», come afferma, sia che abbia aderito a mirati
suggerimenti, come ipotizza l’accusa: «La decisione rimane
giuridicamente legittima in entrambi i casi. Altra cosa sono le
valutazioni politiche o di opportunità». Alle quali si dedica il
professor Lupo: il ministro della Giustizia aveva pieno diritto di
concedere quelle «aperture» senza venire meno ai propri doveri, e
«agì comunque nell’ambito delle sue competenze, scegliendo tra
due alternative per cui militavano buoni argomenti».
Lo
storico concede che da alcuni messaggi fatti filtrare dai capimafia
ai loro gregari si arguisce che «la trattativa c’è stata, solo
che purtroppo (per i boss, ndr ) qualcuno si è rimangiato la
parola». Verità o millanteria che fosse, argomenta Lupo, non c’è
scandalo: il piano storico-politico non va confuso con quello etico
né tantomeno con quello giudiziario; non a caso, quando ai tempi del
caso Moro ci fu chi tentò trattative coi brigatisti, nessuno
s’immaginò di imbastire processi.
Al
cattedratico non interessa contestare i magistrati, quanto mettere in
guardia da una visione complottistica che instilli nell’opinione
pubblica l’idea che fu commesso qualcosa di losco, e oggi il
complotto si rinnova perché non venga fuori. Il giurista, invece, si
concentra sul reato inserito nel capo d’imputazione (violenza o
minaccia a un corpo politico), definito un «espediente giuridico»
teso a «colorare indirettamente di criminosità la stessa
trattativa». Tanto più, insiste Fiandaca, che la sede competente
non sarebbe Palermo, nonostante su questo punto si siano già
pronunciati, dopo i pubblici ministeri, il giudice dell’udienza
preliminare e la Corte chiamata a celebrare il processo. Che non si
sarebbe dovuto nemmeno aprire perché, fanno capire gli autori anche
dal titolo del libro, lo Stato ha vinto e la mafia ha perso. Senza
più tornare ai fasti sanguinosi del tempo delle stragi. Anche questo
proverebbe che certi comportamenti di vent’anni fa avevano buone
ragioni; non «di Stato», bensì di salvaguardia delle «persone in
carne ed ossa» (…)