E’ di tutta evidenza come non sia possibile sconfiggere la mafia e la criminalità organizzata utilizzando esclusivamente le misure repressive. Infatti se consideriamo la criminalità organizzata un vero e proprio “cancro (Conf. Episc. 1989), una tessitura malefica che avvolge e schiavizza la dignità della persona (Giovanni Paolo II; Napoli 1990), ovvero “mafie che avvelenano la vita sociale pervertono la mente e il cuore di tanti giovani, soffocano l’economia, deformano il volto autentico del Sud (Conf. Episc. 2010) dobbiamo puntare su un approccio che sia educativo e contemporaneamente, per quanto ci riguarda, religioso della questione.
Ma prima di continuare, nella convinzione che la Chiesa non deve per nessuna ragione identificare ne confondere la propria azione pastorale con quella dello Stato, devo necessariamente fare dei riferimenti ad alcune delle componenti del nostro attuale pensiero che in un percorso, e per certi versi in una evoluzione, traggono origine in epoca moderna fin dai primi anni del XIX secolo dalle intuizioni di Joseph dei Maistre: il primato e la supremazia morale del Magistero, intuizioni per certi versi anticipatrici di importanti encicliche; la Rerum Novarum la Pacem in Terris (1963), la Populorum Progressio (1967) sino alla Caritas in veritate.
Quale deve essere quindi l’approccio?
Dobbiamo riflettere ed agire iniziando dalla famiglia, continuando nella scuola sino ad approntare azioni e comportamenti esemplari. Centrale il ruolo della Chiesa e del clero. A proposito di questo non possiamo non ricordare come l’Episcopato Siciliano intervenendo più volte sulla questione, nel 1944, nel 1955 e nel 1982 abbia comminato la pena della scomunica alla mafia.
Addirittura nel 1982, i vescovi siciliani hanno sottolineato come ad essere scomunicati non sono soltanto coloro che commettono omicidi ma quanti a qualsiasi titolo, o in qualsiasi modo commettono azioni criminose. Una scomunica, Latae sentenziae che di fatto sembrerebbe non lasciare campo ad equivoci o ad interpretazioni.
Infatti, in più occasioni, come ribadiscono i vescovi siciliani nel 2010, la Chiesa ha pronunciato nei confronti della malavita organizzata parole propriamente cristiane e tipicamente evangeliche come peccato, conversione, pentimento, diritto e giudizio di Dio, martirio. Qui nella valle dei templi, ascoltammo queste parole e questi concetti proferiti con forza da Giovanni Paolo II il 9 maggio del 1993, così come il Santo Padre Benedetto XVI li ha ripetuti in occasione della 43esima giornata della pace, ma anche in occasione della visita pastorale in Sicilia.
Mafia e criminalità organizzata quindi, proprio perché annullano la libertà dell’individuo schiavizzandolo ad una logica perversa, invischiandolo in una rete di connivenze e delitti, tendono ad opprimere quella dignità stessa insita nell’uomo, e quel libero e cosciente arbitrio che contraddistingue la nostra specie.
Ed a questo continuo sistema di oppressione, che nel soffocare coscienze ed individui finisce col soffocare e opprimere interi territori sostituendosi con le proprie regole e le proprie liturgie alle regole dei consorzi civili, alterando la percezione del bene e del male sino a distruggere le coscienze e la dignità dell’uomo, occorre rispondere con un’azione incisiva che inizi fin dai primi anni di vita ad inculcare il rispetto delle regole e della legalità con la proposizione di modelli positivi, proprio per evitare che il mafioso con le sue prepotenze possa costituire un modello da seguire.
Nella tensione continua che le varie componenti della società devono mostrare nell’educare le giovani generazioni fin dai primi anni di vita, assume particolare importanza l’annunzio della Parola, l’amore nei confronti del prossimo, l’abbandono dell’uomo alla misericordia di Dio, la fiducia nel Perdono, la ricerca della Grazia.
In tutto questo, fondamentale è stato il contributo in Sicilia del Cardinale Salvatore Pappalardo che in più occasioni, oltre ad una forte denuncia, come ad esempio in occasione dei funerali del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, della signora Setti Carraro e dell’agente di scorta, ha ribadito con maestria il ruolo della Chiesa e del clero. Va ricordata una delle sue ultime interviste al Magazine del Corriere della sera in cui ribadì “non si può adottare lo stesso linguaggio per il Questore e per il Vescovo. Noi dobbiamo analizzare il fenomeno secondo i principi pastorali senza chiedere in prestito le parole di altri vocabolari”
E colgo l’occasione per ricordare che proprio in quell’intervista si coglie una sorta di piccata delusione nei confronti di coloro i quali, più volte, hanno tentato di impossessarsi del linguaggio e della personalità del cardinale stesso, alcuni antimafiosi di professione i quali arrivarono a sostenere che lo stesso Pappalardo si era come ritirato “nella palude di Palermo”. Financo qualche magistrato non capendo il significato della posizione del Cardinale e della curia, alimentò strumentali polemiche, come ad esempio per la mancata costituzione della curia come parte civile al processo contro gli assassini di padre Puglisi. Proprio quel padre Puglisi il quale come Don Giuseppe Diana o il giudice Rosario Livatino, hanno testimoniato in tutta la loro vita il loro impegno civile in termini specificatamente cristiani. Ed è proprio per questo che oggi potremmo considerarli, come suggerisce Padre Bartolomeo Sorge “nuovi martiri dei nostri giorni che non vengono uccisi perché credono, ma perché amano. Non in odium fidei, ma in odium amoris”
Proprio per ritornare sul tema del messaggio della Chiesa e del clero dobbiamo anche dire qualcosa a proposito del pentimento. Infatti da parte del cristiano nei confronti del peccatore e del peccato c’è un preciso dovere, e cioè quello di operare per la conversione e per la redenzione.
Ma la conversione e l’eventuale pentimento del mafioso hanno necessariamente nel loro percorso il passaggio obbligato del confronto sino alla sottomissione di fronte la giustizia terrena e quindi di fronte le leggi dello Stato e alla loro applicazione. Non c’è conversione e pentimento senza, laddove possibile, una riparazione. Da qui la necessaria collaborazione con lo Stato affinché si possa mettere in atto quanto possibile per evitare che altri uomini e quindi l’organizzazione mafiosa stessa possano continuare a provocare ingiustizie, perpetrando i propri delitti.
Per sdrammatizzare la questione vorrei usare un esempio, forse non appropriato ma di facile comprensione perché viene dal nostro comune bagaglio culturale.
Chi non ricorda la manzoniana figura dell’Innominato? Il dramma, quasi la disperazione dell’uomo malvagio oppresso dal proprio male e al contempo oppressore che si arrende e si abbandona ad una forza superiore sino al pentimento e che da quel momento in poi dedica le proprie energie nel tentativo di riparare, in una maniera o in un’altra ai delitti ed ai torti perpetrati nei confronti degli altri.
Ma il pentimento e la disperazione hanno bisogno di un costante aiuto che è rappresentato dall’amore dell’umana comprensione. Infatti “un pentimento che non riesce più a sperare, ma vede ormai solo il proprio buio, è distruttivo e non è un vero pentimento. Fa parte del giusto pentimento la certezza della speranza, una certezza che nasce dalla fede della potenza maggiore della luce fattasi carne in Gesù” (J. Ratzinger-Gesù di Nazareth).